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mercoledì 9 aprile 2025

Miss Sanny – Il Trionfo della Dea del Nylon - Parte 3


Titolo: La Resa
Capitolo III – La notte delle prove

📖 Racconto di Erry Granduca, tratto dal diario di schiavo Todo Meo


Miss Sanny, nella sua sontuosa villa, possedeva un enorme salone. Spesso vi organizzava serate esclusive, dove invitava i suoi ammiratori più fedeli e una ristretta cerchia di amici. Erano feste raffinate, sensuali, frequentate da persone di altissimo livello sociale: Master che si presentavano con la propria schiava al guinzaglio, e Mistress superbe accompagnate da servi silenziosi, marchiati e obbedienti.
La Dea velata, come veniva chiamata Miss Sanny, teneva moltissimo a fare bella figura con i suoi ospiti. Per questo motivo sceglieva sempre con estrema cura chi avrebbe servito durante le serate. Erano solo schiavi devoti, preparati e fedeli, addestrati all’eleganza del silenzio e alla perfezione del gesto.
Lucrezia, nonostante fosse ormai sua proprietà, non era ancora pronta. Non era stata addestrata a sufficienza per servire durante una di quelle serate. La sua devozione era profonda, certo, ma ancora grezza, non plasmata del tutto nel protocollo della sottomissione cerimoniale.
Todo Meo, elegante nello smoking nero, dirigeva con discrezione tutti gli altri schiavi addetti al servizio, ricevendo ordini diretti dalla sua Padrona.
Quella sera, tuttavia, Miss Sanny decise di fare un’eccezione. La contessa Vivien, una Mistress affascinante e pericolosa, sua amica da lunga data, le aveva fatto una richiesta particolare. Un tempo, quando Lucrezia era ancora una padrona, aveva avuto uno scontro con Vivien... e ne era uscita vincente. Le aveva sottratto due schiavi devoti, con una mossa elegante quanto spietata. Vivien non aveva mai dimenticato.
Ora che Lucrezia era diventata schiava, la contessa volle vederla con i propri occhi. La voleva umiliata. La desiderava strisciare ai suoi piedi.
Miss Sanny sorrise, dietro il velo. E acconsentì.
Diede ordine a Todo Meo di inserire Lucrezia tra i camerieri, ma con un compito secondario: solo un mezzo braccio, solo il gesto umile di togliere i piatti e sparecchiare. Nessuna parola. Nessuno sguardo. Solo il servizio.
La Dea sapeva che quella sera, per Lucrezia, sarebbe stata una prova. E che ogni passo in più verso la sua resa totale sarebbe passato anche da lì: dalla mortificazione. Dal confronto con il passato. Dall’umiliazione rituale.
Perché ogni schiava vera deve passare dalla cenere… prima di brillare nel fuoco.
Il salone Miss Sanny quella sera era illuminato con una cura che rasentava il sacro. Ogni candela sembrava ardere con un intento preciso. I velluti neri che incorniciavano le finestre, le luci basse e dorate, il tavolo perfettamente apparecchiato: tutto emanava il controllo assoluto della padrona di casa.
Lucrezia era lì. In piedi. Vestita secondo le direttive di Miss Sanny: bustier di pizzo nero, collare d’argento al collo, calze velate. E un ordine preciso: servire gli ospiti.
Miss Sanny quella sera apparve più che padrona: apparve mito.
Non indossava un velo sul volto. Il soprannome di “Dea Velata” le era stato dato per via delle sue calze: quelle calze velate, preziose, che sapeva scegliere con la sapienza di una collezionista d’arte e l’intuito di una seduttrice nata. Le sue gambe, scolpite e sinuose, erano rivestite da un velo leggerissimo color champagne, tanto trasparente da sembrare un sussurro. Ogni passo svelava qualcosa, ma mai tutto.
Il suo abito era un capolavoro d’equilibrio tra eleganza e provocazione. Nero, lungo fino al piede, con uno spacco vertiginoso che lasciava intravedere, solo per un istante, le giarrettiere e il reggicalze. Ogni movimento del suo corpo faceva ondeggiare quel taglio come il sipario di un teatro proibito, lasciando chi osservava in un’attesa perpetua.
Chi l’aveva vista da vicino giurava che Miss Sanny non camminasse: scivolasse. Come una nota musicale lungo uno spartito invisibile. I tacchi a spillo, neri e lucidi, scandivano il tempo della sua autorità. Nessuno osava parlarle per primo. Era lei a scegliere chi guardare, a chi sorridere. A chi comandare.
Quando si avvicinò alla sua ospite d’onore, la Contessa Vivien, il salone sembrò trattenere il fiato.
Vivien era seduta con le gambe accavallate, un calice di vino in una mano e uno sguardo tagliente negli occhi. Indossava un abito rosso scarlatto, con uno spacco ancora più audace di quello di Sanny, che lasciava intravedere la rete sottile delle sue calze autoreggenti. Il reggicalze, color bordeaux, emergeva appena dalla seta, come un invito e una sfida.
Quando Miss Sanny si sedette accanto a lei, lo fece lentamente, con quel gesto studiato che solo una vera Dea conosce. Le gambe si piegarono con grazia, lo spacco si aprì come un petalo sotto il sole, e per un attimo—solo per gli occhi più attenti—si rivelò l’intarsio del pizzo che abbracciava la sua coscia.
La Contessa sorrise.
«Sei sempre la più invidiata del salone, mia cara Sanny.»
Lei, senza voltarsi, rispose con voce morbida come velluto:
«Stanotte, però, sarà un'altra a brillare. Ma strisciando.»
Vivien capì.
E il loro brindisi fu la sentenza.
Lucrezia non si era accorta della presenza della Contessa Vivien. Era entrata in sala con il capo chino, concentrata sul suo compito, cercando di mantenere la compostezza che Miss Sanny le aveva richiesto. Ma quando, sollevando appena lo sguardo, vide che accanto alla sua Padrona sedeva proprio lei—la donna che un tempo aveva osato sfidarla, e perso tutto—il gelo le attraversò la schiena.
La Contessa Vivien era lì. In carne, sangue e sguardo affilato. Il suo sorriso, mentre si accarezzava lentamente la coppa del calice, era una lama profumata di vendetta.
Lucrezia sentì il panico salire. Un tremore sottile le percorse le gambe. Senza pensarci, come una bambina colta in fallo, si rifugiò in cucina. Il cuore le batteva all’impazzata, il respiro corto. La sua anima era in tempesta.
Lei. La Contessa.
La donna contro cui aveva vinto ogni sfida. Che ora, accanto a Miss Sanny, tornava come un fantasma in cerca di rivalsa.
E lei… ora era una schiava.
E doveva servire.
Miss Sanny notò immediatamente l’assenza. Ma non fece una piega. Doveva accogliere altri ospiti, e lo fece con grazia imperiosa, come solo lei sapeva fare.
Dopo qualche minuto, mentre conversava con uno degli invitati più illustri—un magistrato di altissimo rango, elegante e raffinato, che le stava chiedendo consiglio su come affinare una giovane schiava dalle grandi potenzialità ma ancora rozza nei modi—Miss Sanny fece un gesto quasi impercettibile con il dito.
Todo Meo si avvicinò in silenzio.
Lei, senza interrompere la conversazione, pronunciò con voce bassa e ferma:
«Dì a Lucrezia che deve servire personalmente un flute di Ferrari alla Contessa Vivien. Nessun altro. Deve essere lei.»
Todo Meo annuì, e sparì tra le stanze.
Quando trovò Lucrezia in cucina, la vide pallida, con lo sguardo perso nel vuoto e le mani strette attorno a un vassoio vuoto. Le trasmise l’ordine con voce neutra, ma non senza una punta di rispetto:
«È un ordine diretto della Padrona. Il flute va servito da te. Solo da te.»
Lucrezia deglutì. Un nodo alla gola.
Poi si scosse, prese il vassoio con mani che tremavano leggermente, e si avviò verso il salone.
La sala era immersa in una luce calda e dorata. Il brusio si fece più intenso quando Lucrezia attraversò lo spazio con passi lenti e misurati. Indossava la divisa da servizio prevista dalla Padrona: corta, semplice, pensata per esporre più che coprire. Il reggicalze si intravedeva ad ogni piegarsi del ginocchio. Ma ora nulla sembrava erotico: tutto era tensione. Umiliazione. Orgoglio ferito.
Quando si avvicinò a Miss Sanny, provò a sussurrare, con voce strozzata:
«Padrona… io… se posso spiegare…»
Ma la Dea Velata non le concesse nemmeno un’occhiata.
Le labbra rosse, perfette, si mossero appena:
«Non ti ho chiesto parole. Ti ho dato un ordine.»
Silenzio.
Un solo battito del cuore.
La Contessa Vivien sorrideva.
E il vero spettacolo… stava per cominciare.
Lucrezia, con il cuore in tumulto, si avviò all’angolo bar. Là, silenziosa ed elegante, c’era Graziella—una delle schiave più esperte al servizio di Miss Sanny—che senza dire una parola le porse un flute perfettamente colmo di Ferrari spumante.
Lucrezia lo prese con mani che tentavano invano di non tremare. Chiuse gli occhi un istante.
Fece un respiro profondo.
Poi si mosse.
Attraversò il salone come in trance, tra i mormorii e i brindisi, le risate educate e lo scintillare discreto dei cristalli. Raggiunse la Contessa Vivien, e come richiesto, si inchinò. Con gesto lento, le porse il bicchiere.
Le gambe le tremavano. L’umiliazione era totale. Non si trattava più solo di servire: era il confronto con ciò che era stata, e con ciò che era diventata.
Fece un passo indietro, cercando di svanire nel nulla. Ma la voce della Contessa, fredda e tagliente, la bloccò:
«Fermati.»
Lucrezia fece finta di non sentire. O forse fu un atto di ribellione disperata. Scomparve tra gli invitati, in un movimento rapido, quasi felino.
Miss Sanny, intanto, continuava a intrattenere i suoi ospiti con garbo e sorriso. I tavoli, disposti in stile tablé, pullulavano di conversazioni leggere e sguardi ammiccanti. Altri ospiti si erano sistemati nei salottini dell’immenso salone, dove i servi servivano piccoli piatti gourmet e vini pregiati.
La Dea Velata era ovunque e da nessuna parte. Una vera padrona di casa: elegante, presente, impeccabile.
Quando raggiunse il salottino dove si era ritirata la sua cerchia più ristretta, prese posto accanto alla Contessa Vivien, che non tardò a raccontarle l’episodio:
«Le ho ordinato di restare ferma. Mi ha disobbedito. Ha fatto finta di non sentire. Mia cara, credo sia il momento di ricordarle cosa significa appartenere.»
Miss Sanny annuì appena, lo sguardo fisso nel calice. Poi chiamò Luigi, uno dei suoi schiavi più affidabili.
«Vai da Lucrezia. Dille che per il resto della serata è assegnata alla Contessa Vivien.
Diglielo così: "Questa sera, fai di Lucrezia ciò che vuoi. È tua."»
Lucrezia tornò alla Contessa con il capo chino. Il viso teso, ma gli occhi ancora accesi.
«Signora… in cosa posso servirla?»
Vivien la osservò a lungo. Poi sorrise con crudeltà.
«Inginocchiati. E leccami i piedi, schiava.»
Lucrezia sollevò appena il volto. I suoi occhi cercarono quelli della donna. E con voce ferma, mostrò il collare al collo.
«Io appartengo a Miss Sanny. Sono la sua schiava, non la tua. Non hai il diritto di darmi ordini di quel tipo.»
Vivien non rispose. Si tolse lentamente i guanti in raso e, con un gesto secco e teatrale, le assestò due schiaffi violenti.
Lucrezia vacillò.
Non reagì.
Non parlò.
Scappò. Si ritirò in una stanza lontana, con il cuore a pezzi e le lacrime che non aveva il permesso di versare.
Da lontano, Miss Sanny aveva osservato tutto.
Si alzò con grazia e, con voce chiara ma solenne, annunciò al salone:
«Appena terminata la cena, prima del dessert… vi sarà uno spettacolo. Una schiava dovrà essere punita pubblicamente. Perché chi disobbedisce… deve ricordare a chi appartiene.»
Silenzio.
Poi un mormorio.
E tutti, come in un rituale antico, attesero.
La cena si era appena conclusa. I tavoli erano stati sgomberati con discrezione e nel salone l’atmosfera si era fatta rarefatta, quasi sospesa.
Un’orchestra dal vivo—arpa, pianoforte, sax—suonava melodie leggere, d’atmosfera. Era musica da salotto raffinato, un sottofondo caldo per sguardi incrociati e sorrisi trattenuti.
Poi, d’improvviso, tutto cambiò.
Il pianoforte si fermò con un accordo lungo, sospeso. Il sax tacque.
E dalle corde dell’arpa salì un arpeggio inquieto, quasi inquietante.
Qualcosa stava accadendo.
Gli ospiti si voltarono.
Dalle ampie scalinate laterali del salone entrò Miss Sanny. Alta, composta, il volto impassibile. Camminava con passo deciso, e con una mano—senza alcuna esitazione—trascinava per l’orecchio Lucrezia, in lacrime.
La scena era solenne.
Unica.
Lucrezia attraversava il salone con i capelli spettinati, il trucco sciolto dalle lacrime che le avevano rigato il volto senza pietà. Le guance erano un misto di rossore, vergogna e disperazione. La bocca tremava. Ma non emetteva suono. Solo il rumore dei tacchi della sua Padrona riempiva l’aria.
Miss Sanny indossava ancora il suo abito nero con lo spacco profondo, e ogni passo rivelava l’inconfondibile eleganza delle sue calze velate e del reggicalze che le stringeva la coscia come una firma. L’aura era regale, quasi divina. Nessuno osava parlare.
Raggiunse il centro del salone, dove la Contessa Vivien era ancora comodamente seduta sul divano in velluto porpora. La luce calda delle lampade cadeva sul suo abito rosso, che scopriva le gambe fasciate in calze a rete e il reggicalze visibile, fiero, come un trofeo.
Miss Sanny spinse Lucrezia con un gesto elegante ma deciso.
La fece inginocchiare.
Ai piedi della sua ex-nemica.
Vivien, senza dire nulla, sollevò lentamente una gamba e porse il piede, fermo, preciso, davanti al viso di Lucrezia.
Il salone trattenne il fiato.
Lucrezia abbassò lo sguardo.
Poi, senza bisogno d’un ordine, senza voce né comando, inclinò la testa.
E iniziò a leccare.
Piano. Umiliata. Fiera. Distrutta e viva.
Ogni gesto era un addio a se stessa.
Ogni tocco, una confessione.
La Contessa chiuse gli occhi.
Miss Sanny si voltò verso di lei e disse, con voce limpida e lenta, udibile da tutti:
«Per questa sera, la schiava è tua. Fanne quello che vuoi… Ormai ha capito.»
La Contessa Vivien, ancora seduta con la schiena dritta e il mento leggermente sollevato, aprì con lentezza e grazia la sua borsa Louis Vuitton. Ne estrasse una piccola frusta in cuoio pregiato, sottile, nera, con il manico rivestito di pelle rossa e cuciture a vista. Un oggetto lussuoso. Letale nella mano giusta.
La soppesò, la fece scivolare tra le dita come una musicista con l’archetto del suo violino. Poi, con un solo gesto, la frusta scattò nell’aria.
Schiack.
Un suono netto, secco, che zittì anche l’orchestra.
Lucrezia tremò. Non si mosse. Non osò.
La frusta si abbatté ancora, e ancora.
Ogni colpo preciso. Ogni fendente accompagnato da un respiro.
La Contessa frustava con una maestria feroce, con la grazia sadica di chi domina da sempre.
Gli schiavi presenti nel salone si irrigidirono. Alcuni si voltarono, incapaci di sostenere la scena. Altri, come in cerca di rifugio o di punizione, si avvicinarono timidamente ai piedi dei propri Master o Mistress, inginocchiandosi. Come cuccioli spaventati. Come figli che cercano l’autorità.
Todo Meo, in smoking impeccabile ma con gli occhi umidi, si avvicinò alla sua Dea.
Con un filo di voce, chinando il capo, sussurrò:
«Padrona… se desidera dare spettacolo… io sono pronto.»
Miss Sanny gli sfiorò il volto con la punta delle dita, dolcemente.
Un tocco che valeva più di mille parole.
«No, mio caro. Non stanotte.
Questa sera… appena gli ospiti se ne andranno, punirò severamente Lucrezia.
Davanti a tutti non abbiamo fatto bella figura.
I miei schiavi… non devono sbagliare.»
Todo Meo annuì. Il cuore stretto. Ma pieno d’onore.
Intanto, la Contessa si era alzata.
Aveva fatto inginocchiare Lucrezia di fronte a lei, trasformandola in un oggetto.
Le sistemò le gambe larghe, una mano sulla nuca della schiava, l’altra a reggere la frusta.
Poi si sedette… su di lei.
Lucrezia era divenuta uno sgabello umano. Umiliata, sì.
Ma viva.
Assuefatta.
Persa.
La Contessa ridacchiò con un’eleganza crudele e propose a Miss Sanny:
«Potremmo chiudere la serata con uno spettacolo. Una piccola prova. E un premio, magari.
Che ne dici?»
Miss Sanny la guardò con i suoi occhi limpidi, taglienti.
Poi annuì con grazia.
«Sarà fatto.»
La serata prese così nuova linfa. Le luci si abbassarono ancora, il vino riprese a scorrere, i gruppi si riformarono nei salottini e nei tavoli laterali. La musica tornò, più sensuale, più lenta. Un sax fece vibrare l’aria.
La Contessa, regina crudele, tenne con sé Lucrezia per il resto della notte. La usò come poggiapiedi, poi come tavolino, e infine le fece massaggiare le gambe con le labbra.
Lucrezia obbedì. Senza più parole. Senza resistenza.
Miss Sanny osservava. E sapeva: La vera punizione… Sarebbe venuta dopo.
La notte si avviava al termine.
Gli ospiti lasciavano la villa con lentezza, ancora colmi dell’incanto e della sensualità che avevano respirato per ore. Le risate si attenuavano, le conversazioni scivolavano nel sussurro, e il tintinnio dei calici si faceva sempre più raro.
Nel grande salone, gli schiavi di Miss Sanny continuavano a lavorare in silenzio, agili e precisi come ombre addestrate. Sparecchiavano, riordinavano i salottini, rimettevano ogni oggetto al proprio posto come se nulla fosse mai accaduto.
La Contessa Vivien, prima di congedarsi, si fermò davanti a Miss Sanny.
Aveva ancora gli occhi accesi, l’abito rosso come una promessa perversa e la frusta sottile infilata nella borsetta. Aveva lasciato Lucrezia con il trucco sciolto, i capelli spettinati e il respiro corto… inginocchiata come una piccola statua viva di vergogna.
Con un gesto deciso, Vivien afferrò Lucrezia per i capelli e la strattonò, portandola ai piedi della sua Padrona.
«Te la restituisco, mia cara. È ancora tutta intera, più o meno.»
Poi, con un sorriso carico di velenosa ironia, aggiunse:
«Sai che mi piacerebbe averla da me, per il weekend?
Ho bisogno che qualcuno pulisca casa… e mi intriga vedere come si inginocchia un’ex Dea con lo straccio in mano.»
Miss Sanny non rispose subito. La fissò con un mezzo sorriso enigmatico, poi posò lo sguardo su Lucrezia.
Il suo sguardo non era più quello della padrona elegante: era quello della Giudice.
«Inginocchiati.»
La voce fu bassa, ma definitiva.
Lucrezia obbedì. Le ginocchia toccarono il pavimento lucido, e le mani si posarono sulle cosce, aperte, in segno di resa.
Miss Sanny si avvicinò. Le mani guantate accarezzarono per un istante la guancia della sua schiava. Era un gesto quasi dolce, quasi materno…
Ma negli occhi, c’era il fuoco della punizione.
«Le frustate della mia amica erano solo l’inizio.»
La voce era calma. Inevitabile.
«Hai disobbedito. Hai scelto il silenzio al posto dell’obbedienza.
Hai compromesso l’ordine della casa.
E ora…
Pagherai.»
Lucrezia chinò la testa.
Un brivido le percorse la schiena.
Aveva capito.
La vera punizione…
Stava per iniziare.
Ed era meritata.
Il salone era vuoto. Solo le luci basse e la musica lontana dell’arpa sembravano testimoniare che, poco prima, lì vi era stata una festa. Ma ora c’era solo il silenzio.
Miss Sanny sedeva sul trono di velluto nero. Davanti a lei, in ginocchio, Lucrezia.
Ancora spettinata, ancora sporca di lacrime, ma viva. Respirava a fatica. Tremava.
Eppure non si muoveva. Aveva accettato. Aveva capito.
La Dea Velata la osservava in silenzio. Era bellissima, immobile come una statua d’avorio, ma in lei ardeva un fuoco freddo, lucido. Non c'era rabbia nei suoi occhi. Solo decisione.
Aveva aspettato questo momento. E ora, sapeva:
Lucrezia le apparteneva. Davvero.
Si alzò.
A passi lenti e solenni le girò intorno, poi la afferrò per i capelli e le sollevò il volto.
«Guardami.»
La voce era bassa, ma più penetrante di un urlo.
E quando i loro occhi si incrociarono, arrivò il primo schiaffo.
Secco, sonoro.
Poi un altro. E un altro ancora.
Lucrezia non si difese.
Non chiuse gli occhi.
Ogni colpo la spezzava… e la ricostruiva.
Miss Sanny prese Lucrezia per il collo e la spinse a terra.
«Trampling.»
La parola fu pronunciata come un comando sacro.
La schiava si stese obbediente, offrendo il corpo. La Dea la calpestò con lentezza, con precisione. I tacchi affondavano nella carne e nella dignità, ma ogni passo scolpiva il marchio dell’appartenenza. Era un rito, un sigillo, un'opera d’arte sul corpo umano.
Sanny salì sul petto di Lucrezia, sul ventre, sulla coscia. Le mani guantate la bilanciavano, i tacchi parlavano.
E mentre dominava il suo corpo, sentiva la vittoria.
“Adesso sì. Adesso è mia.”
“Non c’è più ribellione. Solo resa. Solo appartenenza.”
Lucrezia piangeva in silenzio, ma erano lacrime diverse.
Aveva conosciuto altre donne. Altre Mistress.
Ma Miss Sanny… era oltre.
Era la Dea delle Dee.
Nessuna l’aveva mai piegata così. Nessuna l’aveva mai fatta sentire… così vuota.
E così completa.
E poi, venne il momento.


Miss Sanny si fermò. Fece un cenno a Todo Meo che portò via ogni oggetto superfluo.
La sala ora era solo un tempio.
La Dea sollevò l’abito. Si posizionò sopra Lucrezia.
E la marchiò.
Una pioggia dorata, calda, lenta, solenne.
Il sigillo finale.
L’umiliazione assoluta.
La conferma pubblica e divina della sua appartenenza.
Lucrezia non pianse più.
Non tremò.
Sorrise.
Perché ora sapeva.
Sapeva cosa significava servire una vera Dea.
Sapeva di non valere nulla… se non ai piedi di Miss Sanny.
E in quel nulla, aveva trovato tutto.
Miss Sanny la guardò, un ultimo istante. Poi disse con voce chiara:
«Ora… firma.»
Todo Meo le porse l’atto.
Lucrezia, con le mani ancora tremanti, firmò:
Lucrezia La Schiava
Proprietà assoluta di Miss Sanny. A vita.
E nel firmare, mormorò una sola frase, quasi un sussurro:
«Grazie, mia Dea… per avermi dato un posto. Ai tuoi piedi.»

 



 

 



 

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